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Vade retro, Storia dell'Arte!
(giugno 2010)

Da mesi è in discussione, tra le polemiche, un progetto di riordino della Scuola Secondaria Superiore a firma della ministra dell'Istruzione Mariastella Gelmini (click per il curriculum vitae). Da destinataria della riforma (in quanto insegnante di Storia dell’Arte e curatrice del sito Alipes. Arte e cultura nella pubblicità, rivolto in particolare ai grafici pubblicitari dei Professionali, click) da mesi leggo e rileggo, sconfortata, la bozza del progetto: stando all'elenco degli indirizzi scolastici previsti, e delle materie a ciascuno pertinenti, l'insegnamento della storia dell'arte viene decisamente ridimensionato, in una condizione prossima all'estinzione.
Tra gli alunni a cui non si ritiene più necessario illustrare le opere di Fidia, Michelangelo e Picasso ci sono i grafici pubblicitari degli Istituti Professionali: dalle 3 ore settimanali per 5 anni attuali alle 0 ore previste. Zero ore. Nemmeno lo strapuntino di un'ora settimanale o, che so, di un paio d'ore negli ultimi due anni.

Tralascio le ovvie considerazioni sull’importanza della disciplina ai fini dell’arricchimento interiore individuale e mi soffermo sul suo, eventuale, valore ‘professionalizzante’ nel corso per i grafici. La domanda da cui muovere è: esiste una relazione tra arte e pubblicità tale da giustificare la necessità di una conoscenza della prima per chi si occupa della seconda? La risposta della ministra e degli esperti didatti che la consigliano è, ovviamente, negativa.

Eppure i conti non sembrano tornare. Penso alle mostre che, numerose, affrontano dagli ultimi decenni questo tema, come la sezione nella mostra Werben mit Antike di Basilea nel 1975, le due grandi esposizioni parigine del 1991 e 2000, quelle di New York nel 1990, di Losanna nel
1999, di Strasburgo nel 2007 e le due recenti mostre milanesi (2007 e 2008). Queste solo per rimanere sulle generali, ché altrimenti l’elenco sarebbe assai corposo (ultima in ordine di tempo, la mostra romana L'arte della pubblicità).
Come interpretare questo proliferare di esposizioni? Beh, la spiegazione c'è ed è evidente. I tedeschi, lo sanno tutti, sono privi di gusto, e quindi non sanno distinguere tra un dipinto e una pagina pubblicitaria (del resto, non discendono forse dai barbari illetterati che distrussero l'impero romano?). I francesi sono degli snob, per questo si interessano di cose marginali, o inconsistenti, solo per il vezzo dell'eccezionalità e del "noi capiamo quello che gli altri non sono in grado di discernere causa ovvia inferiorità intellettuale". Gli americani... lasciamo stare, la cultura non li ha mai sfiorati. Quanto a noi italiani, è risaputo che siamo provinciali e andiamo dietro a tutte le mode, basta che vengano dall'estero.

Qualcuno obietterà che in numerosi studi (per tutti, Elio Grazioli, 2001 e Maria Rosaria Dagostino, 2009) la relazione tra arte e pubblicità e le reciproche 'invasioni di campo' emergono in modo chiarissimo.

C'è la prassi del détournement. C'è l'attività come pubblicitari svolta da molti artisti. E non ci si riferisce solo ai cartellonisti di fine Ottocento come Jules Chéret, Adolph Mucha o Henri de Toulouse-Lautrec, o a quelli italiani della prima metà del Novecento esaltati dal critico Roberto Longhi ("Anni fa, nel sottozero inesorabile dell'arte nostrana, i cartellonisti italiani erano gli unici connazionali che sapessero fare quadri", 1918) e da Massimo Bontempelli ("La vita della nuova pittura verrà dal cartellone illustrato", 1927). Ma il pensiero va a Magritte, Picasso, Mirò, Chagall, Hopper, Warhol e giù per li rami fino ai giorni nostri, quando la commistione arte-pubblicità è incontrovertibile.

A questo proposito, la mostra del 2004 Flirts. Arte e pubblicità, curata da Andreas Hapkemeyer, ha
ribadito non solo la relazione tutt'altro che frivola tra le due, ma ha sottolineato anche l'influsso capovolto, cioè della pubblicità sull'arte: se prima la pubblicità "prendeva il proprio materiale iconografico da tutti gli ambiti semiotici, dall’arte fino alla religione, sottomettendolo al gioco specifico del sistema della pubblicità dei capovolgimenti di codificazione, delle decontestualizzazioni, sovrapposizioni e remake" (Siegfried J. Schmidt), ora sempre di più è l’arte che guarda ai modelli pubblicitari che, di provata efficacia dal punto di vista comunicativo, offrono strumenti adatti anche a veicolare contenuti artistici. Vale la pena citare in proposito le considerazioni di F. Ghelli, 2005 (p. 21): "si assiste a un'osmosi perfetta tra arte e pubblicità: gli artisti (ad esempio graffitisti, performer e artisti concettuali) imitano le modalità di intervento nel tessuto urbano della pubblicità, mentre alcuni pubblicitari lanciano messaggi provocatori degni dell'arte di avanguardia". E l'esemplare mostra di arte concettuale How many billboards? Art in stead, a Los Angeles tra febbraio e marzo 2010: 21 opere d'arte di talenti locali proposte su cartelloni pubblicitari (5x2m) tra le grandi avenue come un circuito espositivo.
Sta di fatto che istituzioni universitarie e museali si ostinano ad analizzare il fenomeno: segnaliamo, in proposito,
la lezione Arte e pubblicità: immaginario e metafora (17 giugno 2010) tenuta da Elio Grazioli nell'ambito del ciclo di conferenze L’attualità dei simboli, nella quale lo studioso si è soffermato sull’intreccio fra arte e pubblicità, immaginario e metafora e sulle reciproche influenze, affinità e differenze dei linguaggi impiegati.

Insomma, oggi distinguere tra arte e pubblicità è decisamente arduo. A conferma del fatto che molti ritengono che questa distinzione di ambiti non ha più senso citiamo "la Glue Society, un collettivo di creativi con sede a Sydney e New York, che tra i suoi membri annovera scrittori, designer, artisti, registi e quanti lavorano nell'arte a 360 gradi. La Glue Society non si è mai definita né agenzia pubblicitaria né gruppo artistico, ma collettivo creativo che spazia liberamente tra arte, fotografia, installazione e pubblicità..." (Dagostino)
.

Ciarpame visivo? Culturame? Elitarismo?
Evidentemente sì, stando agli estensori della riforma della Scuola Secondaria Superiore. Che conseguentemente hanno cassato la Storia dell'Arte dal riformando corso di Grafica Pubblicitaria dei Professionali: i futuri pubblicitari nostrani si formeranno ignorando Fidia, Michelangelo e Picasso
, e non avranno gli strumenti per interpretare la civiltà visiva del proprio tempo (i corsi attivati presso i Licei Artistici non saranno che una risicata compensazione, visto il loro esiguo numero). Dovremmo consolarci osservando che analogo destino è riservato ai corsi che si occuperanno di moda (dai quali la storia dell'arte, che veniva insegnata nel 4° e 5° anno per due ore settimanali, scompare) e di turismo (dove l'accorpamento degli indirizzi porta, di fatto, a una drastica riduzione del numero di alunni ai quali verrà impartito tale insegnamento)?

Decisioni dissennate, da cui non si può che dissentire.
 

Le relazioni pericolose
tra arte e pubblicità

 

Giulia Grassi
 (curriculum vitae)

 


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