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SCHEDA DIDATTICA 5

 
PITTURA SU SUPPORTO MOBILE O 'DA CAVALLETTO'



La pittura su supporto mobile esiste da millenni, ma le testimonianze più antiche sono andate quasi completamente perdute a causa della deperibilità del materiale usato: si trattava infatti di pittura su tavole di legno. Tra gli scarsi esempi conservati ci sono i cosiddetti
ritratti del Fayum, di epoca romana. Dal XV secolo al legno si è affiancata la tela che, progressivamente, ha finito con il prevalere. Questi sono i supporti prevalenti, ma esistono esempi di pittura su altri materiali, come marmo e rame.
Sia il legno che la tela venivano preparati prima della stesura del colore, che poteva essere trattato secondo diverse modalità, mescolando i pigmenti (coloranti di origine minerale, vegetale o animale, polverizzati) con leganti di vario tipo, cosicché si parla di tecnica a encausto, a tempera, a olio.


A) IL SUPPORTO

A.1 - Legno
 
Una serie di ritratti di epoca romana (I-III secolo d.C.) trovati in Egitto sono stati realizzati su vari tipi di legno, come abete, cedro, quercia, sicomoro; la stesura pittorica era con colori
a encausto o a tempera.
In epoca medievale si usavano di preferenza il legno di pioppo in Italia ed Europa meridionale, il legno di quercia in Europa settentrionale. Il termine "tavola" è per noi sinonimo di 'pittura eseguita su un supporto di legno' (Rubata in una chiesa una preziosa tavola del Duecento), ma una tavola nasceva da una lunga preparazione.
Il legno era trasformato in assi, accuratamente lisciate. Le dimensioni desiderate della tavola da dipingere si ottenevano unendo due o più assi con varie procedure (perni di legno, chiodi, colla ecc), operando nella parte posteriore del

supporto; per renderla più solida, e meglio trasportabile, la tavola poteva venire fissata su un'intelaiatura di travi. Nella parte anteriore, le giunture tra le assi venivano nascoste con strisce di lino o pergamena.
E non era finita.
Sulla tavola si stendevano vari strati di gesso e colla (fino a otto), ciascuno dei quali accuratamente lisciato una volta asciutto; sull'ultimo strato, infine, si passava un velo di colore a tempera, neutro. Questa base si chiamava imprimitura. Su di essa veniva eseguito il disegno preparatorio, preliminare alla stesura del colore.


Nelle tavole medievali la stesura pittorica era preceduta dalla
doratura
di sfondi, aureole, ornamenti (abiti, gioielli, corone ecc) e cornici. Sottilissime foglie d’oro (preparate dai cosiddetti "battilori" con la battitura del metallo fra due strati di pelle e ritagliate nella forma richiesta dal disegno preparatorio) venivano fissate alla superficie della tavola, sulla quale già era stato steso del mordente o del bolo (terra mescolata con chiara d’uovo montata a neve). Le foglie in questo modo aderivano perfettamente.

La stesura pittorica era con colori a tempera o a olio.

 
Simone Martini, San Ludovico di Tolosa, ca 1317
tempera su tavola (Napoli, Museo di Capodimonte)
 
A.2 - Tela
 

I pittori veneti del Rinascimento sostituiscono al legno un tessuto, prevalentemente di lino o canapa: è quella che si chiama "tela". Anche questo supporto necessitava di una preparazione: strati successivi di colla e gesso, che venivano raschiati con una spatola; alla fine, uno strato di colore scelto in base alle tinte che il pittore pensava di usare nella stesura pittorica.
La tela è un supporto più flessibile del legno, il pennello si muove più velocemente e le caratteristiche della tessitura (maglie più o meno compatte, in diagonale, a spina di pesce ecc) condizionano l'effetto finale della pittura. È ideale per i colori a olio.
 

B) LA STESURA PITTORICA

B.1 - a encausto
 
Tecnica molto usata nell'antichità. I pigmenti venivano mescolati con cera d'api, il composto veniva sciolto e, ancora caldo, steso su un supporto di legno (non di rado preparato con gesso o con lino indurito con colla animale); in base alle esigenze, si potevano aggiungere al composto resina (come il mastice di Chio), uovo o olio di semi di lino. Per stenderlo si utilizzavano sia pennelli (con la punta usata calda o fredda) sia spatole.
L'effetto finale è quello di una pellicola pittorica compatta e brillante; e anche piuttosto resistente.
Poiché la pittura 'da cavalletto' greca antica è andata perduta, tant'è che noi conosciamo opere e autori solo attraverso le fonti scritte e le copie di epoca romana (dipinti murali e mosaici), questa tecnica è documentata soprattutto da una serie di dipinti di epoca imperiale romana (I-III secolo d.C.). Si tratta di 'ritratti funerari' scoperti in Egitto, dove le particolari condizioni climatiche ne hanno permesso la conservazione. Molti di questi provengono dall'oasi del Fayum, che si trova a occidente della valle del Nilo (a circa cento km a sudovest del Cairo), per questo sono conosciuti come ritratti del Fayum. Ma è una definizione non più accettabile perché i ritrovamenti, sparsi in molte località dell'Egitto, indicano che si trattava di una produzione diffusa in tutto il Paese.
Dal XVIII secolo artisti e studiosi, affascinati dalla brillantezza e inalterabilità dei colori, hanno cercato di riprodurre questa antica tecnica.

Ritratto  dal Fayum, inizi del II secolo (Santa Monica, Getty Museum)

 

 
 

La pittura ad encausto deve essere distinta dalla cosiddetta encausticazione, un procedimento molto usato, ad esempio, sulle pitture parietali di Pompei.
Sembra, infatti, che quelli pompeiani non siano dei veri affreschi e che i colori venissero stesi sull'intonaco asciutto. L'eccezionale vivezza cromatica deriverebbe perciò, oltre che dalla perizia nell'esecuzione del dipinto, dall'uso di stendere sulla pittura murale realizzata della cera fusa stemperata con dell'olio (ecco perché 'encausticazione'). Non solo. La superficie veniva lucidata con dei panni asciutti, ottenendo il duplice effetto di rendere lucenti i colori e di proteggerli.

 
 

Fregio dionisiaco (?), I secolo d.C.
(Pompei, Villa dei Misteri)

B.2 - a tempera
 
Questa tecnica pittorica, utilizzata ancora oggi, ha radici antiche: molti dei cosiddetti ritratti del Fayum, dipinti su tavola di epoca romana, sono realizzati a tempera. Genericamente per "tempera" si intende un composto ottenuto unendo il pigmento colorato con leganti, cioè sostanze come uovo, lattice di fico, cera, colla, tutte solubili in acqua. Naturalmente il tipo di composto varia nei secoli, ma il principio è il medesimo nel tempo. E nel tempo varia anche il modo di stenderlo: ad esempio, nella seconda metà del Quattrocento si usa la velatura, con strati di colore molto diluiti sovrapposti.
Con il diffondersi della pittura a olio, dal XVI secolo, l'uso della tempera diventa sempre più rarefatto; verrà 'riscoperta' agli inizi del XX secolo.

 

B.3 - a olio

Tecnica che consisteva nel miscelare i pigmenti colorati (di origine animale, vegetale o minerale) con oli grassi essiccanti: di lino, di noce, di papavero. Le caratteristiche di luminosità, fluidità e trasparenza, tipiche della miscela ottenuta, potevano venire accentuate aggiungendo altri componenti, come l'essenza di trementina. L'essiccazione avveniva lentamente, consentendo correzioni e variazioni in corso d'opera. A pittura ultimata, si stendeva una vernice protettiva. Era usata sia sul legno che sulla tela, supporti opportunamente preparati a ricevere la stesura pittorica.

Giorgio Vasari, artista e teorico del Cinquecento, ne attribuisce l'invenzione al pittore fiammingo Jan van Eyck. In realtà le fonti scritte (ad esempio Plinio, Teofilo, lo pseudo Eraclio) indicano che fin dall'antichità si usavano colori mescolati con olio, e quindi è probabile che nelle Fiandre del XV secolo questa tecnica sia stata semplicemente perfezionata; da lì si è poi diffusa in Italia
grazie ad Antonello da Messina.

La sua adozione privilegiata a partire dal XVI secolo deriva dalla sua estrema duttilità, che consente affetti pittorici di grande varietà a seconda della diluizione della miscela (come le velature di Leonardo o le pennellate a corpo di Rubens).
 
 

 

Le velature sono sottilissimi strati di colore, molto diluito, stesi progressivamente sugli strati precedenti già asciutti, in modo da lasciarli trasparire. Danno effetti di luminosità e morbidezza atmosferica.      Effetti di brillantezza e intensità cromatica si
   ottengono con pennellate a corpo, che
   distribuiscono colori corposi, spessi e coprenti.




Leonardo, Vergine delle rocce,  olio su tavola,
1483-86 (Parigi, Louvre)

 




P. P. Rubens, Giuditta e Oloferne, olio su tela,
1626 (Firenze, Uffizi - Deposito)

 
 
C) L'INNOVAZIONE TECNICA DEL XIX SECOLO
 
Nel XIX secolo il modo di usare i colori a olio cambia. L'industria chimica produce nuovi olii sintetici, che ampliano enormemente la gamma cromatica a disposizione dei pittori (dopo la casuale, e perciò isolata, scoperta del blu di Prussia nel 1704). Non solo i colori non devono essere più preparati manualmente, ma vengono conservati in pratici tubetti di metallo, brevettati in Inghilterra nel 1843. E vengono messe in vendita tele già fornite dell'imprimitura.
Le novità tecniche finiscono per incidere sugli aspetti più squisitamente formali della pittura. Gli artisti, liberati dalle mansioni più pratiche della loro attività, possono uscire dagli studi, e andare a dipingere all'aperto (en plein air), a
diretto contatto con la natura. E le componenti tradizionali - il disegno, la prospettiva, il chiaroscuro - vengono abbandonate, in funzione di una rappresentazione più immediata della realtà, e di una diversa percezione dei valori cromatici in relazione alla luce naturale.

Il cambiamento più evidente è l’abbandono della forma modellata attraverso il chiaroscuro, ottenuto con l’alternanza di luci e ombre - graduale come nello sfumato leonardesco o fortemente contrastata come in Caravaggio – e con la mescolanza dei colori, sulla tavolozza o sul supporto.
In particolare, gli impressionisti utilizzano colori puri, non mescolati ma giustapposti sulla tela tramite pennellate rapide, spezzate, che suggeriscono la forma attraverso macchie colorate (ombre comprese, rese non più con il nero, abolito) più che descriverla, con un effetto di “abbozzo”, di non finito: la fusione cromatica avviene nella retina dello spettatore, che integra l’immagine.

Il colore finisce così per acquistare una sua autonomia rispetto alla forma, diventando protagonista del quadro. E questo avrà conseguenze importantissime per lo sviluppo della pittura successiva, favorendo agli esiti astratti di Kandinskj.
 

Claude Monet, Covone di fieno a Giverny,
olio su tela, 1886
(San Pietroburgo - Hermitage)
 
(Giulia Grassi, aprile 2009)
 

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