Il ritratto
è, con il rilievo storico, una delle espressioni più
emblematiche della civiltà romana. Del resto, basta entrare
nelle sezioni di arte romana di qualunque museo archeologico per
rendersene conto. Dalle mensole o dai piedistalli lungo le
pareti i volti di decine di abitanti dell'immenso impero - non
solo imperatori e senatori, ma anche generali, filosofi, commercianti, donne e bambini, e di tutte le età - si susseguono
silenziosi, in un campionario strabiliante di fisionomie,
caratteri e psicologie. Si tratta infatti, eminentemente, di
ritratti fisionomici, propri cioè di 'persone' realmente
esistite, in genere improntati a un forte realismo.
Il ritratto fisionomico non è però un'invenzione
romana, perché lo si |
ritrova anche in Grecia (in epoca ellenistica) e presso gli
Etruschi; ma a Roma esso si sviluppa con caratteri
del tutto particolari, e originali.
Inoltre, i
ritratti greci in genere erano
fusi nel bronzo, quindi sono andati perduti, ed
erano parte di figure intere, perché
per la mentalità ellenica l'integrità fisica non
doveva essere infranta. Quelli che conosciamo sono
perciò soprattutto copie in marmo di epoca romana,
non di rado di qualità un po' scadente, e proposti
in genere come busti-ritratto, secondo la diversa visione dei
copisti.
Prima
dell'età ellenistica (che per convenzione inizia
nel
323 a.C.) nella ritrattistica greca prevaleva
un'impostazione "tipologica": ad esempio,
Pericle è stato ritratto secondo il tipo
del generale e non per come era realmente, era
quindi un ritratto ideale.
Molti ritengono che il primo ritratto fisionomico
greco sia stato quello di Platone, realizzato
da Silanion e collocato, forse nel
347 a.C., in un
luogo dedicato alle Muse. Si trattava, perciò, di un
ritratto pubblico, creato per onorare il grande
filosofo dopo la sua morte.
Con
l'Ellenismo, la tendenza a rappresentare non
più tipi ma 'individui' ha finito con
l'affermarsi in modo definitivo, aprendo la strada
alla diffusione anche del ritratto privato accanto a
quello pubblico fino a quel |
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Pericle, copia romana dell'originale
di Kresilas?, seconda metà del V sec. a.C. (Londra, British Museum) |
Platone, copia romana dell'originale
di Silanion,
circa 347 a.C. (Città del Vaticano, Museo
Chiaramonti) |
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momento
dominante.
In
ambito etrusco-italico si riscontra uno sviluppo
simile a quello della ritrattistica greca, ma con
una differenza fondamentale: l'attitudine a
concentrare l'attenzione sulla modellazione delle
teste rispetto a quella dei corpi, poiché si
riteneva che la testa da sola bastasse a
rappresentare la persona intera.
Molto si è scritto sul
ritratto romano e sulla sua
origine. Secondo l'ipotesi prevalente, il tipico
ritratto romano, fisionomico e realistico, nasce in
ambito privato e in epoca sillana (primo quarto del
I secolo a.C.), come espressione dei valori
dell'aristocrazia.
Nasce in ambito privato in quanto legato al culto
degli antenati, proprio dell'aristocrazia, nel quale
le immagini in cera dei
membri della famiglia
(imagines maiorum) - ricavate dal calco del vero volto dei defunti e
pertanto estremamente realistiche
-
rivestivano un'importanza fondamentale. Secondo una
norma giuridica,
lo ius imaginum, solo gli aristocratici avevano il diritto a
possedere tali immagini
e a conservarle in casa. Venivano poste dentro un
armadietto a sportelli, ciascuno munito di una
iscrizione con il nome e i titoli del defunto,
collocato bene in vista nella casa (domus) e
quindi nell'atrio
d'ingresso (col tempo, furono sostituite da immagini
in marmo o
bronzo). La nobilitas di una famiglia, la
sua antichità e quindi la sua autorevolezza, erano
direttamente proporzionali al numero di imagines
che essa poteva vantare, e che si arricchiva
continuamente, visto che col matrimonio la moglie
portava con sé le immagini dei propri antenati, che
si aggiungevano a quelle del marito.
Le immagini in cera svolgevano un
ruolo fondamentale nei riti funerari del patriziato
romano, come testimonia la sempre citata descrizione
di un funerale fatta dallo storico greco POLIBIO,
venuto a Roma come ostaggio nel
166 a.C.:
"Quando qualche illustre personaggio muore, celebrandosi le
esequie, è portato con ogni pompa nel
Foro pressi i cosiddetti
Rostri e ivi posto quasi sempre dritto e ben visibile, raramente
supino.
Mentre tutto il popolo
circonda il feretro, il figlio, se ne ha uno maggiorenne e se è
presente, o in mancanza qualcun altro della famiglia, sale sulla
tribuna, rammenta le virtù del morto e le imprese felicemente
compiute in vita […]
Dopo la laudatio funebris, il morto si seppellisce con gli
usuali riti funebri e la sua immagine, chiusa in un reliquiario
di legno, viene portata nel luogo più visibile della casa.
L’immagine è una maschera di
cera che raffigura con notevole fedeltà la fisionomia e il
colorito del defunto. In occasione di pubblici sacrifici
espongono queste immagini e le onorano con ogni cura; e quando
muore qualche illustre parente le portano in processione nei
funerali, applicandole a persone che somigliano agli originali
per statura ed aspetto esteriore. […] Non è facile per un
giovane che aspiri alla fama e alla virtù vedere uno spettacolo
più bello di questo […]
Quando ha finito di parlare
del morto, l’oratore incaricato dell’elogio funebre ricorda i
successi e le imprese dei suoi antenati, dei quali sono presenti
le immagini, cominciando dal più antico. Così, rinnovandosi
continuamente la fama di virtù degli uomini valorosi, si
immortala la gloria di coloro che hanno compiuto qualche nobile
impresa e il nome di coloro che hanno servito bene la patria è
conosciuto da tutti e si trasmette ai posteri. E, quel che più
importa, i giovani sono spinti a sopportare tutto per
procacciarsi la gloria che si accompagna ai valorosi". |
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Ritratto
derivato da
maschera funebre in cera, terracotta, I secolo.
a.C. (Parigi, Louvre) |
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Queste maschere funebri in cera non
esprimevano esigenze di carattere
estetico bensì veicolavano valori
politici e di casta, ed è solo
dall'incontro con la tradizione del
ritratto fisionomico ellenistico,
quello sì portatore di alte qualità
artistiche, che nasce il ritratto
romano. Ecco perché le maschere di
cera si possono considerare "una
matrice 'ideologica' e non una
matrice formale" di esso (R. Bianchi Bandinelli, Roma. L'arte nel
centro del potere, 1969¹,
Rizzoli 2005, p. 118).
Quanto esposto finora spiega
l'apparizione del ritratto romano in
epoca tardo-repubblicana, in un
periodo molto particolare della
storia dell'Urbe, squassata dal
conflitto tra patrizi e plebei
seguito alle riforme dei Gracchi
(121 a.C.).
Esponente di spicco del
patriziato è Silla (dittatura
tra 82
e 79 a.C.), il cui nome è
indissolubilmente legato a quello
del campione dei plebei Mario,
oggetto di disprezzo "Perché -
diceva - non ho immagini (di
antenati) e la mia nobiltà è nuova"
(SALLUSTIO). Il conflitto si
concluse con la vittoria del
patriziato, e la nascita del
ritratto proprio in quel
cinquantennio di lotte sanguinose
viene interpretata come il segno
della riconquista del dominio e la
riaffermazione di una decisa
'coscienza di sé' e dei propri
valori da parte dell'aristocrazia. |
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I ritratti patrizi
della prima metà del
I secolo a.C.
sono caratterizzati da un realismo
esasperato, che non concede nulla
alla bellezza esteriore e alla
mondanità ma celebra i valori
fondanti non solo dell'aristocrazia
ma di Roma stessa, nata dalla forza
e dalla volontà di un popolo di
austeri e determinati contadini.
Un esempio abusato, ma efficace,
è il ritratto di un
patrizio romano della
collezione Torlonia a Roma.
Rappresenta un uomo col volto
segnato da rughe profonde, le labbra
serrate in una piega severa, il naso
prominente, le guance incavate: i
difetti fisici e gli oltraggi della
vecchiaia appaiono riprodotti senza
alcuna indulgenza, quasi con
morbosità. I tratti duri del volto
lasciano intuire anche la
personalità
dell'uomo (o, almeno, come vuole che
sia percepita): uno stile di vita
austero, la dura pratica
dell'autodisciplina, l'integrità
morale, il coraggio, in poche parole
l'intransigente adesione a quel
sistema di valori e tradizioni
- mos maiorum, 'costumi dei
padri' - sentito come base dell'essere romano. E forse anche un certo
disprezzo per il mondo al di fuori
della casta di appartenenza.
Accanto a questo uso privato del
ritratto, ben presto se ne sviluppa
anche uno pubblico, legato a
esigenze di carattere politico e di
'immagine'. E questo sviluppo è
accompagnato all'affermazione di una
tendenza idealizzante, di
derivazione greco-ellenistica,
che attenua la brutalità del
realismo estremo.
Ne è un esempio il ritratto di
Pompeo a Copenhagen, che
probabilmente in origine era parte
di una |
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statua (si tratta della copia del I
secolo d.C. di un originale del
60/50 a.C.).
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Gneo
Pompeo Magno è stato un grande
generale, e con Giulio Cesare e
Licinio Crasso ha
costituito il cosiddetto Primo
Triumvirato. A Roma
ha legato il suo nome al celebre Teatro con Portici nel Campo Marzio meridionale, in una vasta area che
oggi va da Largo
Argentina a Piazza Farnese.
Nel ritratto c'è un sapiente
equilibrio tra realismo e
idealizzazione. È evidentemente il
volto di un uomo maturo, con una
certa tendenza alla pinguedine, il
naso dalla punta troppo carnosa, le
labbra eccessivamente sottili: un
vero ritratto fisionomico. Ma
l'incarnato non è quello di un cinquantenne e le rughe della fronte
non sembrano
il marchio
indelebile dell'età bensì semplici
increspature d'espressione.
Il modellato è morbido e i capelli
sollevati sulla fronte in un'onda studiatamente
scomposta sembrano richiamare il
doppio ciuffo della fluente chioma
di Alessandro Magno come appare
negli innumerevoli ritratti del
conquistatore, modello di ogni
ambizioso generale che si rispetti.
Queste due tendenze - realismo e
idealizzazione - rimarranno nella
ritrattistica, coesistendo; e
caratterizzeranno in genere l'una il ritratto
privato e l'altra il ritratto
pubblico e onorario. Ne sono un
esempio due ritratti
dell'imperatore Vespasiano
(regno tra 69 e 79),
conservati l'uno a Copenhagen (Ny
Carslberg Glyptothek) e l'altro a
Roma (Museo Nazionale Romano). Nel
primo è fissato il volto, dai tratti
plebei e un po' volgari, del vecchio
generale originario della Sabina,
figlio di un esattore delle imposte;
uomo pratico, dai modi rudi e poco
incline alla mondanità (ma grande
riorganizzatore
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dell'impero). Nel secondo è proposta
l'immagine
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del
princeps: austero e autorevole,
nobile nell'atteggiamento, la fronte
spaziosa dell'intellettuale.
È naturale che nella ritrattistica
imperiale prevalga questo secondo
filone idealizzante, anche per la
funzione che queste immagini avevano
nell'ideologia imperiale. In ogni
angolo del vasto impero esse
richiamavano la presenza
dell'imperatore, unica fonte di ogni
autorità anche se fisicamente
lontano; non rappresentavano
semplicemente il princeps,
"erano" il princeps.
Illuminante, in tal senso, è la
testimonianza del vescovo SEVERIANO
(fine del IV secolo): "Pensa
a
quanti governatori vi sono nel mondo
intero. Dal momento che l’imperatore
non è a contatto con tutti loro, è necessario che
la sua immagine sia posta nei tribunali, nei mercati, nei luoghi
di riunione, nei teatri. L’immagine dell’imperatore deve essere
posta in ogni luogo in cui il governatore esercita il potere,
perché i suoi atti abbiano la necessaria autorità”.
Le immagini imperiali andavano
rispettate. Lo storico SVETONIO
racconta che, all'epoca di
Tiberio, erano previste gravi
punizioni per chi entrasse in
una latrina o in un lupanare
(bordello) con un anello o delle
monete recanti l'immagine di
Augusto: come se quegli atti
impuri potessero, attraverso
l'effige, contaminare lo stesso
imperatore. |
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Non bisogna, infine, dimenticare che i
ritratti scolpiti nel marmo non erano
lasciati bianchi, ma solitamente erano dipinti a
colori vivaci: una vera passione per la
policromia accomunava infatti i
romani ai greci e agli etruschi, anche
se noi siamo abituati all'idea, del
tutto errata, che le sculture (e le
architetture) antiche fossero di marmo
candido.
Ad esempio, in base alle tracce di
pittura sopravvissute sul
ritratto di
Caligola (37-41) - pupilla, ciglia e
sopracciglia dell'occhio sinistro,
collo, frangia dei capelli - gli
studiosi nel 2003 hanno
creato un modello tridimensionale della
scultura come doveva
presentarsi al momento
della sua realizzazione: per il nostro
gusto l'effetto è straniante, ma
probabilmente non è troppo lontano dal
reale aspetto dell'opera originaria.
Notevolmente
spiazzante
è la anche la recente ipotesi di
coloritura della statua detta dell'Augusto
di Prima Porta, sempre
avanzata in base alle tracce di
pittura rinvenute sul pregiatissimo
marmo pario nel quale è stata
scolpita la statua del primo
imperatore.
Inoltre i romani facevano largo uso
di marmi colorati non solo
nell'architettura ma anche
nella scultura, spesso
abbinandone di diversi in un'unica
opera. È il caso, ad esempio, del
ritratto
di Caracalla
(212-217) conservato ai Musei
Capitolini di Roma: la testa in
marmo bianco 'lunense' (di
Carrara) è inserita in un busto di
porfido rosso, il marmo
imperiale per eccellenza perché
richiama la porpora, il cui uso era
riservato agli imperatori (indossare
la porpora voleva dire
'diventare imperatore').
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sulla policromia nella
scultura antica,
vedi la
scheda didattica 11
sui marmi colorati
nell'architettura romana,
vedi la
scheda
didattica 12 |
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(Giulia Grassi,
maggio 2009) |
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