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SCHEDA DIDATTICA 23

 
LA TEORIA ARTISTICA NEL XVIII SECOLO
(seconda parte)

(prima parte)

 
IMITAZIONE (E COPIA)

Il concetto di imitazione (lat. imitátio, gr. mímesis) accompagna l'arte fin da epoca greca, come riflessione sui modi in cui si esprime la relazione tra la realtà e la sua riproduzione in un'opera creata dall'uomo. Se ne occuparono, tra gli altri, i grandi filosofi del IV secolo a.C. Platone e Aristotele.

Platone aveva una pessima idea dell'arte figurativa, che considerava una mera mimetikè téchne ('arte imitatrice'): poiché l'artista riproduce gli elementi della realtà, che sono solo una copia imperfetta (apparenza) di modelli eterni e perfetti chiamati Idee (essenza), l'opera d'arte in quanto 'copia di una copia' si qualifica come attività non creativa, che allontana dalla ricerca dell'assoluto.
Diversa la posizione di Aristotele. Partendo dalla distinzione tra vero e verosimile, sostiene che l'ambito dell'arte è, per mezzo della mímesis, non la rappresentazione passiva del vero, con i suoi aspetti imperfetti e contingenti, ma quella del verosimile (o 'necessario'), legandola alla capacità da parte dell'artista di
"agire seguendo la natura", quindi potenzialmente in grado di trasfigurare e nobilitare la realtà. Realtà che deve essere intesa non solo come mondo esterno all'uomo ma anche come attinente alla sua dimensione interiore ed emotiva. Questo gli consente di considerare l'arte uno strumento formativo e di educazione.
Senocrate (III secolo a.C.) aggiunge il concetto di progresso nella capacità di imitare, prospettando la possibilità di un superamento della stessa  natura (come avviene con il canone proporzionale di Lisippo).

Il tema dell'imitazione è molto presente nella trattatistica del XVI e XVII secolo, sia pure con sfumature diverse. E l'idea dell'arte come espressione del verosimile è presente nei teorici classicisti del Seicento, come ad esempio Giovan Pietro Bellori, che condanna i realisti come Caravaggio non
per aver imitato la natura, ma per averlo fatto in modo pedissequo, senza operare alcuna scelta (bello ideale).

L'imitazione degli antichi sarà centrale nella poetica neoclassica, perché secondo Johann Joachim Winckelmann
"
Per noi, l'unica via per divenire grandi e, se possibile, inimitabili, è l'imitazione degli antichi" (Pensieri sull'imitazione dell'arte greca nella pittura e nella scultura, 1755).
E netta sarà la distinzione tra l'imitazione, intesa come un vero esercizio dello spirito, e la copia passiva sia della natura (che porta a soggetti inferiori e volgari come la natura morta e la pittura di genere) sia
degli antichi (che porta allo 'stile marmoreo' degli scultori che si limitano a riprodurre le statue antiche senza comprenderne lo spirito).
Chiarissimo, in proposito,
Anton Raphael Mengs secondo il quale solo "colui che effettivamente studia e osserva le opere dei grandi uomini con il sincero desiderio di imitarle, si rende capace di produrre opere che ad esse assomigliano, perché considera le ragioni per le quali sono state fatte [...] e questo fa di lui un imitatore senza essere un plagiario" (Pensieri sulla bellezza e il gusto nella pittura / Gedanken über die Schönheit und den Geschmack in der Malerei, 1762).
L'opera frutto di imitazione ha quindi tutte le prerogative, positive, di una creazione artistica autonoma.

 

 
IMMAGINAZIONE E/O FANTASIA

I termini fantasia e immaginazione per secoli sono stati considerati per lo più come sinonimi, riferiti alla capacità di concepire immagini che non hanno riscontro nel mondo reale, e quindi anche espressione della facoltà inventiva dell'artista. Fantasia deriva dal gr. phantasía (da phantázo, 'mi mostro, appaio alla vista'); immaginazione dal lat. imaginátio (da imago, 'immagine'), nel senso di fantasticare.
La netta distinzione tra i due viene operata agli inizi dell'Ottocento da
Friedrich Hegel: "La fantasia va indicata come facoltà spiccatamente artistica. Tuttavia bisogna guardarsi dallo scambiare la fantasia con l'immaginazione puramente passiva. La fantasia è creatrice". Nella concezione hegeliana la fantasia è quindi correlata alla creatività mentre l'immaginazione viene 'declassata' a capacità puramente riproduttiva del già noto. La distinzione hegeliana arriva però alla fine di un acceso dibattito che aveva percorso tutto il Settecento, quando i due termini assumono una particolare rilevanza, ricorrendo negli scritti di coloro che ritengono l'ispirazione poetica e artistica proprie non dell'ambito della ragione ma di quello del sentimento.

Per Giovan Battista Vico (
Scienza Nuova, 1ª edizione 1725) l'arte è la prima espressione dell'umanità (I primi popoli, i quali furono i fanciulli del genere umano, fondarono prima il mondo delle arti; poscia i filosofi, che vennero lunga età appresso, e in conseguenza i vecchi delle nazioni, fondarono quello delle scienze; onde fu affatto compiuta l'umanità) ed è basata sul sentimento (Questa degnità è ’l principio delle sentenze poetiche, che sono formate con sensi di passioni e d’affetti, a differenza delle sentenze filosofiche, che si formano dalla riflessione con raziocini) e sulla fantasia, libera dalle costrizioni della riflessione razionale (la fantasia è tanto più robusta quanto più debole è il raziocinio). Quindi i grandi poeti (come i grandi pittori) nascono non nelle epoche di riflessione, ma in quelle di immaginazione.
Non dissimile la posizione di Johann Georg Hamann:
La poesia è la madrelingua del genere umano, come il giardinaggio è più antico dell'agricoltura, la pittura più della scrittura, il canto più della declamazione, le similitudini più delle deduzioni [...] Il senso e le passioni comprendono solo il linguaggio delle immagini (Aestetica in nuce, 1762). Non a caso Hermann è stato uno dei primi a caricare di particolare significato il termine di genio, come indefinibile e ribelle ad ogni spiegazione razionale.

Jean Baptiste Du Bos (Réflexions critiques sur la poésie et la peinture, 1719) ritiene che l'arte sia esclusivamente una questione di sentimento: Scopo primo della pittura è commuoverci. Un'opera che commuove è assolutamente eccellente. Per la stessa ragione un'opera che non commuova e non coinvolga non vale niente; e se la critica non trova errori contro le regole, è perché un'opera può essere brutta senza che vi siano errori contro



Johann Heinrich Füβli, L'incubo, 1781 (Detroit)
  le regole, come un'opera piena di errori può essere eccellente [...]. Il sentimento
  insegna, se l'opera commuove, più e meglio di ogni dissertazione dei critici. 
  La strada delle discussioni e delle analisi di cui si servono questi signori è buona, in verità, se si tratta di trovare quali sono le cause che fanno sì che un'opera piaccia o non piaccia; ma questa strada non vale quanto quella del sentimento se si tratta di decidere sul problema. Tutti i ragionamenti altrui, in particolare quelli dei critici, non ci persuaderanno mai a credere il contrario di ciò che noi sentiamo, perché il sentimento è un sesto senso, l'unico in grado di giudicare l'arte: il senso che decide se l’imitazione che ci viene mostrata in un poema o nella composizione di un quadro ci suscita compassione e ci intenerisce è lo stesso che viene intenerito e che giudica l'oggetto imitato, cosicché quando l'oggetto è realmente toccante […] il cuore si emoziona spontaneamente e con un moto che precede ogni riflessione […] Si piange per una tragedia prima di aver considerato se l'oggetto presentatoci dal poeta è tale da commuoverci e se è bene imitato. Il sentimento ci spiega cos'è prima che l'abbiamo esaminato. Quindi "il sentimento è un preciso principio conoscitivo che, nel campo delle opere d’arte, possiede la medesima certezza propria alla ragione nelle dimostrazioni geometriche" (L. Russo, 2005).

Con pari veemenza
celebra le emozioni Denis Diderot: Non ci sono che le passioni, e le grandi passioni, che possano innalzare l'anima alle grandi cose. Senza di esse non vi è niente di sublime, né nei costumi né nelle opere (Pensées philosophiques, 1746); Tu non riuscirai mai a convincere il mio cuore che ha torto di fremere, le mie viscere che hanno torto di commuoversi (Essai sur la peinture, 1765).

La rivendicazione del ruolo primario delle passioni porterà così al riconoscimento del potere dell'immaginazione (in senso pre-hegeliano) come forza creatrice, e l'arte, e il giudizio sull'arte, verranno sottratte alla ragione e poste sotto l'egida del sentimento. L'estetica del sublime e l'esaltazione del genio ne sono una conseguenza, così come la pittura 'visionaria' del tardo Settecento (
Johann Heinrich Füβli, William Blake) e l'immaginario romantico ottocentesco. La dicotomia ragione / sentimento (ma anche oggettivo / soggettivo, norma / libertà) percorre tutto il secolo, ma non bisogna cadere nella semplicistica contrapposizione tra intelletto ed emozione, nella quale sono stati sbrigativamente inquadrati Neoclassicismo e Romanticismo, perché la questione è molto più complessa. È infatti significativo che questo interesse per la sensibilità si manifesti durante l'Illuminismo "usufruendo proprio degli strumenti di conoscenza da esso offerti" (G. Briganti*, 1989). Ragione e sentimento: due facce di una stessa medaglia.
 

 
PITTORESCO
 
Concetto fondamentale dell’estetica settecentesca. Il termine pittoresco compare saltuariamente nella trattatistica del XVII secolo a indicare uno stile pittorico libero, non condizionato da regole e caratterizzato dalla pennellata spezzata e dal colore a macchia. Nel XVIII secolo assume il suo significato moderno, venendo utilizzato per indicare sia la pittura di paesaggio che il cd giardino all’inglese.
La sua prima teorizzazione è ad opera del pittore e acquarellista inglese Alexander Cozens (
New Method of Assisting the Invention in Drawing Original Compositions of Landscape, 1785). Per lui la natura è il luogo in cui l'uomo vive e agisce, in una relazione di scambi emotivi. La natura è infatti una fonte inesauribile di stimoli, che vengono percepiti attraverso i sensi (sensazioni). Ma mentre il dato sensoriale è comune a tutti, solo l’artista lo interpreta, traduce, chiarisce e comunica attraverso la pittura. La sensazione visiva si dà per macchie colorate, indistinte, e il pittore la traduce in macchie di luce e colore, guidato sia dall'intelletto che dal sentimento.
Ed ancora un inglese,
il teorico Edmond Burcke, definirà 'pittoresca' la pittura dei grandi paesaggisti seicenteschi Claude Lorrain e Nicolas Poussin, e sublime quella di Salvator Rosa (A Philosophical Enquiry into Origin of our Ideas of Sublime and Beatiful, 1756).
 
Il pittoresco è legato ai principi della varietà, irregolarità, movimento, spontaneità in modo da riprodurre il libero dispiegarsi dei fenomeni naturali e pervenire a una immagine 'naturale' che stimola emozioni e suscita sorpresa. In realtà si tratta di una 'naturalezza' costruita, che nasce dall’accostamento, tutt’altro che spontaneo, di elementi diversi e discordanti. Scrive il celebre pittore e progettista di giardini Louis Carrogis Carmontelle: "La natura varia a seconda dei climi. Facciamo quindi variare i climi per far dimenticare quello in cui viviamo. Cambiamo gli scenari del giardino come le scenografie dell'Opera, facendo vedere nella realtà quello che i pittori più abili potrebbero offrire con l'artificio: tutti i tempi e tutti i luoghi" (1760 ca). Il paesaggio pittoresco, nella pittura come nei giardini, è quindi 'di immaginazione': la sua spontaneità è solo apparente, perché derivante dallo studiato accostamento di elementi diversi, che nella realtà sono dispersi.

Nel giardino 'all'inglese' vengono aboliti tutta una serie di elementi che avevano caratterizzato il giardino geometrico (formal garden) alla francese, derivante da quello all'italiana: gli elementi posti a circoscrivere e delimitare lo spazio (fondali, quinte arboree), i grandi viali prospettici, le aiuole simmetriche e i parterre di piante e arbusti potati in forme geometriche secondo i principi dell’ars topiaria. Ora nello spazio del giardino si alternano ruscelli e alberi secolari, rocce e prati ben curati, grotte e cespugli 


C. Lorrain, Paesaggio con pastori. Il ponte Molle, 1645


John Constable, The Vale of Dedham, 1828
ma anche finte rovine e pergole, piramidi e ruderi gotici, con un avvicendarsi di elementi naturali e artificiali che è fonte continua di emozioni. Una natura 'selvaggia' e libera dominata però da regole codificate: "E quando si fa succedere una all'altra [scena], si deve contrapporre il maestoso all'elegante, il regolare al selvatico, l'ameno al malinconico, di modo che ogni emozione sia seguita da un'emozione contraria" (Carmontelle).

E non si tratta solo di pittura o di giardinaggio, perché la polemica contro il formal garden si carica, in Inghilterra, anche di connotazioni filosofiche e politiche. "In sostanza, l'argomentazione principale contro il formal garden viene portata in nome della libertà contro la regola: la natura è attraente disordine, irregolarità, varietà e non obbedienza a uno schema preordinato, soffocante uniformità, rigida sottomissione alle leggi della geometria. Opporre a Versailles i Kew Gardens significherà anche respingere il modello autoritario, assolutista della monarchia francese in nome del sistema liberale che l'Inghilterra costituzionale ha definitivamente adottato" (Calvano, 1996).

L'approfondimento teorico della poetica del pittoresco spetta, ancora, alla critica inglese.
William Gilpin (Three Essays: On Picturesque Beauty; On Picturesque Travel; and On Sketching Landscape, 1792) consiglia come si può rendere, in pittura, il pittoresco: "Trasforma il prato in un pezzo di terreno spezzato; pianta querce ruvide al posto di cespugli fioriti; rompi i bordi del vialetto e dagli la rozzezza di una strada; segnalala con tracce di carri; spargi alcune pietre e rami secchi; in una parola invece di rendere il tutto liscio, rendilo ruvido; e lo renderai anche pittoresco".
Uvedale Price
(Essays on the Picturesque, As Compared with the Sublime and the Beautiful, 1794) pone il pittoresco come terza categoria estetica accanto al bello e al sublime, individuando i seguenti caratteri come specifici di esso: intricacy (intreccio confuso), roughness (ruvidezza), sudden variety (varietà inaspettata) e abruptness (asprezza).
  Il paesaggio pittoresco avrà un grande interprete nel pittore romantico John Constable.
 

 

STORIA DELL'ARTE

La storia dell'arte è una disciplina storica che studia i fenomeni artistici (pittura, scultura, architettura; cosiddette 'arti minori'), la loro formazione, evoluzione e trasformazione anche in relazione al contesto storico e culturale rispetto al quale i medesimi si definiscono e affermano.

La storia dell'arte in senso moderno nasce con il teorico del Neoclassicismo e del Bello ideale
Johann Joachim Winckelmann, che col suo libro Geschichte der Kunst des Altertums (Storia dell'Arte dell'Antichità, 1764) rinnova la storiografia artistica fino a quel momento dominante, basata sulle biografie degli artisti.
Era stato Giorgio Vasari a inaugurare questo genere storiografico
con le sue Vite de' più eccellenti architetti, pittori et scultori italiani da Cimabue insino a' tempi nostri (1550; 1568), nelle quali si afferma l'idea dell'arte intesa come una progressiva maturazione in relazione al concetto di imitazione della natura. Le vite degli artisti sono infatti inquadrate in tre "età" a cui corrispondono tre "maniere": prima maniera (iniziata con Cimabue), quando gli artisti tornano a confrontarsi con la natura ma 'con tante imperfezioni'; seconda maniera (avviata da Masaccio, Brunelleschi, Donatello e Piero della Francesca), degli artisti che cercano 'di far quel che vedevano nel naturale' ma senza riuscire ad evitare 'una certa maniera secca, e cruda, e tagliente'; terza Maniera o 'maniera moderna', avviata con Leonardo da Vinci e conclusa da Michelangelo, col quale si raggiunge la perfezione.

Questa impostazione biografica aveva dominato nei due secoli successivi; fino a Winckelmann, considerato immediatamente
il primo a farci sentire la necessità di distinguere fra le varie epoche e a tracciare la storia degli stili nella loro graduale crescita e decrescita (Wolfgang Goethe, 1787). Non più storia degli artisti, infatti, ma degli stili.
Winckelmann divide la storia dell'arte antica in quattro periodi:
1) antico, anteriore a Fidia
2) sublime, di Fidia e dei suoi contemporanei
3) bello, da Prassitele sino a Lisippo e Apelle (sino alla "morte dell'arte")
4) d'imitazione, fino alla caduta dell'impero romano.
E ritenendo che un processo analogo si fosse ripetuto in epoca moderna, propone per essa un'analoga divisione:
1) antico, anteriore a Raffaello
2) sublime, di Raffaello e Michelangelo
3) bello, con Correggio e Guido Reni
4) d'imitazione, dai Carracci e la loro scuola

A suo parere la trasformazione/evoluzione/decadenza degli stili artistici solo marginalmente viene condizionata dall'agire degli artisti. Nella sua concezione l'Estetica coincide con l'Etica, il Bello con il Buono - kalòs kai agathós (vedi in Alipes: kalokagathia) - e l'arte fiorisce solo nelle epoche di libertà:
già nel suo
Pensieri sull'imitazione dell'arte greca nella pittura e nella scultura (1755) aveva legato lo straordinario sviluppo delle arti nella Grecia antica al fatto che artefici e fruitori vivessero da liberi cittadini secondo i principi della democrazia.
Winckelmann "ha insegnato alla sua epoca a guardare con occhi nuovi non solo le statue e i vasi antichi, ma tutta quanta la civiltà greca" poiché prima di lui "la parola 'antichità' indicava un lungo periodo che andava dal V secolo a.C. al regno dell'imperatore bizantino Foca. In genere i prodotti artistici di questo periodo erano considerati sostanzialmente equivalenti l'uno all'altro" (H. Honour, 1993). Un grande merito, anche se alcune sue convinzioni hanno portato a dei travisamenti interpretativi, ad esempio relativamente all'uso del colore nella statuaria classica (vedi scheda in Alipes).
 


(L'Apollo del Belvedere in Winckelmann, click)

Dopo Winckelmann la riflessione dei teorici si è orientata sulla definizione delle caratteristiche proprie della storia dell'arte, delle sue prerogative e finalità, soprattutto in relazione a una disciplina 'affine' come la critica d'arte, anch'essa definitasi nel XVIII secolo.

 

  di
SUBLIME
 
 

William Blake, Tentazione e caduta di Adamo ed Eva, 1808 (illustrazione del Paradiso perduto)
  Categoria estetica elaborata nel Settecento, sebbene le sue origini risalgano alla filosofia antica. Si contrappone al bello ed è legata ai concetti di immaginazione e genio. Deriva dal latino sublimen, che ha due etimologie opposte: o sub-limis, "altissimo", che sta sotto l’architrave della porta, o sub-limo, "sotto il fango", cioè quelle cose abissali, nascoste da uno strato di bruttezza (Remo Bodei)

Il concetto risale al mondo antico, al trattato Sul sublime (Περì 'Υψους, Perì Hýpsous) scritto forse nella prima età imperiale dallo Pseudo-Longino. Si riferisce alla letteratura, indicando uno stile oratorio elevato, che colpisce l'ascoltatore con la potenza del linguaggio figurato e la ricchezza sintattica e lessicale, inducendolo in uno stato di sbigottimento ed estasi che lo esalta:
Il sublime non porta gli ascoltatori alla persuasione ma all’esaltazione. Non solo, ma "la nostra anima viene elevata per natura sotto la spinta del vero sublime e, preso possesso di un superbo trampolino di lancio, si riempie di gioia e di orgoglio, quasi che essa stessa avesse creato quel che ha udito" (Giordanetti-Mazzocut Mis, 2005).
La fortuna del trattato inizia nel Seicento, quando viene tradotto da Nicolas Boileau nel 1674; ma è nel Settecento che si impone nell'acceso dibattito estetico sulle arti.

Accanto allo Pseudo-Longino, è da segnalare il ruolo del poema di John Milton Paradise lost (Paradiso perduto, 1667, click per il testo). "L'influsso del Paradise Lost sullo sviluppo della teoria del sublime fu notevole; Dennis, Addison, Burke, Bodemer e Breitinger, Lessing e Kant fanno riferimento all'epopea di Milton come a un modello di poesia che supera il mondo sensibile e dà, grazie alle parole, rappresentazione sensibile a ciò che mai i sensi potranno cogliere nel corso della vita terrena"
(Giordanetti-Mazzocut Mis, 2005).

La prima coerente trattazione del sublime moderno si deve all'inglese
Edmund Burke, col suo trattato A Philosophical Enquiry upon the Origin of our ideas of the Sublime and Beautiful (Indagine filosofica sull'origine delle nostre idee di sublime e di bello, 1757). Scrive Burke: Tutto ciò che può 
destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è in un certo senso terribile o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore è una fonte del Sublime. E, ancora, lo definisce l'orrendo che affascina.
In modo netto, Burke contrappone il sublime al bello, inteso come regolarità, armonia, equilibrio, proporzione. E lo definisce dal punto di vista sia soggettivo che oggettivo: nel primo caso come delight (piacere misto a terrore); nel secondo caso individuando ciò che nella natura e nell'arte suscita passione, rapimento e sgomento:
tutto ciò che è terribile [...] è pure sublime. E la natura nei suoi aspetti più terrorizzanti (mari in burrasca, montagne scoscese, eruzioni vulcaniche) è fonte di sublime in quanto produce la più forte emozione che l'animo sia capace di sentire. Un'emozione 'negativa', perché derivante non dal fenomeno naturale in sé ma dalla consapevolezza della distanza insuperabile che separa il soggetto dall'oggetto.

Il filosofo tedesco Immanuel Kant affronta il tema prima nelle Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime (
Beobactungen über das Gefühl des Schönen und Erhabenen, 1764), poi nella Critica del Giudizio (Kritik der Urteilskraft, 1790). Scrive Kant: Noi diciamo sublime ciò che è assolutamente grande [...], ciò che è grande al di là d'ogni comparazione [...]. Noi non possiamo avere per esso alcuna misura adatta al di fuori di 
lui, né altro criterio v'è in esso stesso. E infatti una grandezza che è uguale solo a se stessa [...] al cui paragone tutto rimane piccolo [...]. Le rocce che si elevano ardite e quasi minacciose, le nuvole temporalesche che s'ammassano nel cielo fra lampi e tuoni, i vulcani nella loro potenza devastatrice, gli uragani che lasciano dietro di sé la devastazione, l'oceano senza limite sollevantesi in tempesta, l'alta cascata di un grande fiume, tutte queste cose riducono a un'insignificante piccolezza il nostro potere di resistere a tanta forza. Ma la loro vista ci esalta tanto più quanto più è spaventevole, a condizione che ci troviamo al sicuro [...]. Anche lui quindi pone l'accento sulla terribilità, l'angoscia, la minaccia come componenti del sublime.
Ma aggiunge:
Da ciò si comprende anche che la vera sublimità deve essere ricercata solo nell'animo del giudicante, non dell'oggetto naturale, il cui giudizio è reso possibile solo dallo stato d'animo. Chi vorrebbe dire sublimi masse informi di monti sovrapposte l'una all'altra in selvaggio disordine, con le loro piramidi di ghiaccio, oppure il mare oscuro e tempestoso e altre simili cose? Ma l'animo si sente elevato nella propria stima, quando, contemplando queste cose, senza riguardo alla loro forma, si abbandona alla immaginazione e alla ragione, la quale ultima, pur unendosi all'immaginazione senza alcun fine determinato, la estende, e insieme trova che tutta la potenza dell'immaginazione è inadeguata alle sue idee. In questo modo il filosofo riconosce che il sublime è una relazione che si stabilisce tra la ragione e l'immaginazione, un rapporto conflittuale ma inevitabile.
 
Così Kant distingue tra sublime
'dinamico' e sublime 'matematico'. Il primo riguarda la potenza
 
 

Giacomo Leopardi, L'infinito
Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare.

annientatrice della natura, che nel suo scatenarsi incontrollato pone l'uomo di fronte alla coscienza dei suoi limiti e della sua fragilità. Il secondo riguarda la grandezza, l'immensità della natura fuori dal tempo. Così "l'uomo dolorosamente conscio del suo limite di fronte alle cose immensamente più grandi di lui, tanto più grandi che non può aspirare a misurarle, trae da questo confronto la coraggiosa spinta a lanciare una sfida, a tentarne l'emulazione. A misurare sino al possibile, l'immisurabile, posseduto, in quest'azione, da un'angoscia 'positiva', perché è catarsi del male verso il bene, coscienza di darne un giudizio morale" (G. Briganti*, 1989).
Nella pittura di epoca romantica questi due aspetti del sublime si colgono molto bene nelle opere, rispettivamente, di Turner e di Friedrich.
 

Joseph Mallord William Turner, Tempesta di neve: Annibale e il suo esercito attraversano le alpi, 1812

Caspar David Friedrich, Monaco in riva al mare, 1810

 
Al sublime, inteso come oscura minaccia incombente sull'uomo, si ricollega una notevole fioritura letteraria. Innanzitutto i Canti di Ossian, composti nel 1760 dallo scozzese James Mcpherson, che finse di aver tradotto le opere del leggendario bardo scozzese Ossian. E poi il cd romanzo gotico, che fa la sua apparizione con Il Castello di Otranto (The Castle of Otranto) scritto nel 1764 da Horace Walpole.
 

 
BIBLIOGRAFIA: 
I. PANOFSKY, Il significato delle arti visive, ediz. Einaudi 1962; L. VENTURI, Storia della critica d'arte, Einaudi 1964; F. PFISTER e D. IRWIN (a cura di), J.J. WINCKELMANN, Il Bello nell'arte. Scritti sull'arte antica, Einaudi 1973; G. BRIGANTI, Intervista su Michelangelo, 1975; G. BRIGANTI*, I pittori dell'immaginario, Electa ediz. del 1989; E. DE ANGELIS (a cura di), J.W GOETHE e F. SCHILLER, Il dilettante, Donzelli 1993; H. HONOUR, Neoclassicismo, Einaudi ediz. 1993; T. CALVANO, Viaggio nel pittoresco: il giardino inglese tra arte e natura, Donzelli 1996; AA.VV., L'arte (critica e conservazione), Jaca Book 1996; G. MORPURGO-TAGLIABUE (introduzione a), I. KANT, Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, Rizzoli 1996; S. TEDESCO, L'estetica di Baumgarten, in ‘Aesthetica Preprint’, 6, dicembre 2000; P. FABIANI, La filosofia dell'immaginazione in Vico e Malebranche, Firenze University Press 2002 (Tesi: Art & Humanities, 1); G. MILANI - M. PEPE, Dizionario di arte e letteratura, Zanichelli 2002; P. GIORDANETTI - M MAZZOCUT MIS (a cura di), I luoghi del sublime moderno, LED 2005; L. RUSSO, Jean Baptiste Du Bos e l'estetica dello spettatore, in ‘Aesthetica Preprint. Supplementa’, 15, dicembre 2005; E. DI STEFANO, Bello e Idea nell’estetica del Seicento, in ‘Aesthetica Preprint’, 79, aprile 2007; G. PINNA, Il sublime romantico. Storia di un concetto sommerso, in ‘Aesthetica Preprint’, 81, dicembre 2007
 
(Giulia Grassi, aprile-giugno 2011)
 

 

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